Milano, Teatro dell'Elfo
con Massimo Popolizio, Valeria Milillo, Almerica Schiavo
produzione Emilia Romagna Teatro, Associazione Teatro Stabile di Torino
Antonio Syxty
Luca Ronconi
Massimo Popolizio, Valeria Milillo, Almerica Schiavo
Carmelo Giammello
Giancarlo Salvatori
Angelo Corti
Emilia Romagna Teatro, Associazione Teatro Stabile di Torino
22/09/1992 Milano, Teatro Dell'Elfo
L'aquila bambina è per me un punto di arrivo e di passaggio per una scrittura che si prefigge lo scopo di affrontare temi e argomenti forti, con un carattere mitico.
Naturalmente il mio problema è quello del linguaggio da usare, in un paese dove la lingua - quella che si usa per scrivere teatro - è fortemente sovraccarica di motivi del passato, e quindi poco contemporanea. Nel senso che il teatro che si scrive oggi in Italia - e mi riferisco principalmente alla mia generazione - è un teatro che affronta la scrittura per la scena in modo decisamente "minimalista", o esageratamente melodrammatico, quando non è solo comico surreale. Con il termine minimalismo vorrei intendere uno schema di scrittura che, pur affrontando temi di indubbia contemporaneità, non si pone il problema, che per me è fondamentale, del teatro inteso come rito, quindi mitico; cioè che affronta il personaggio moderno, ma che lo fa in senso "classico", valido a qualsiasi latitudine e quindi universale.
Personalmente, per fare questo, cerco di contaminare il linguaggio con quelli che sono - per me - due motivi di ispirazione molto forte: il fumetto e il cinema (questo per quanto riguarda il procedimento di scrittura - l'hardware). A questi si aggiunge ovviamente una forte influenza della letteratura cosiddetta "postmoderna" e, al suo opposto, quella di genere "basso" o volgare (horror, thriller, rosa - il software).
Facendo un parallelo "alto" con il cinema potrei indicare questo procedimento come un percorso alla Kubrick: partendo da un romanzo come Shining di Stephen King o Nato per uccidere di Gustav Hashford, per arrivare a film capolavori come Shining e Full metal jacket.
In sintesi ciò che dovrebbe essere in grado di fare oggi un autore di teatro contemporaneo è parlare con un linguaggio moderno in termini classici.
Secondo quanto io credo e cerco nel mio piccolo di realizzare, la modernità di tale linguaggio consiste nelle contaminazioni, nelle interferenze di segnali opposti e contraddittori, nelle afasie ritmiche ed emozionali delle visioni mentali, in rapporto al dato sempre più oggettivo dell'informazione nella comunicazione di massa.
William Burroughs diceva che il linguaggio è un virus, allo stesso modo sono portato a pensare e a credere che la scrittura per il teatro deve convivere con la moderna infezione virulenta del linguaggio che la struttura e la satura.
Per fare questo occorre una frequentazione trasversale dei generi, ed una elaborazione strutturale approfondita, unita ad un forte senso del teatro, inteso come luogo del "qui e ora" del rito, della cerimonia.
Sempre più sono portato a credere nel teatro come forma liturgica - quindi visionaria - del rito. L'aspetto rituale, quando è determinante, tende ad azzerare ogni rapporto con il passato e con il futuro, soprattutto quando è "rito cruento". Quando è così, è solo "al presente". E il tempo presente del rito teatrale è - per me - l'unica vera forza che distingue il teatro da ogni altra forma di spettacolo. Così la parola deve tenere conto, e non può non farlo, di tale crudeltà, essendo violentemente ancorata al presente "hic et nunc" della scena.
Lo spettatore diventa un partecipante, o officiante, solo nel momento in cui si realizza il rito della parola. E naturalmente la parola - e non può altro che essere - slegata da ogni forma di psicologismo e psicologia, così come lo erano le grandi tragedie del teatro antico.
Scrivere oggi per il teatro rimanendo lucidamente coscienti dei motivi fin qui accennati, è cosa molto difficile, perché occorre mettere a nudo la parola, azzerandola dei rimandi evocativi per renderla concreta e volutamente autoreferenziale; confrontandola direttamente e violentemente con la visione, facendola così diventare il vero feticcio del teatro.
In un'epoca di feticci, la parola deve diventare il feticcio supremo del nostro unico momento rituale ancora esistente: il teatro.
Solo in questo nudo può realizzarsi, in un'accezione completamente diversa, quella che per gli antichi greci era la catarsi della tragedia.
La catarsi per noi moderni, chiamati ad officiare all'evento teatrale, è legata unicamente alla potenza virtuale di una parola-feticcio, in grado di contenere in sé tutte la violenza emozionale e visionaria e tutta la disperata euforia della nostra epoca.
Lavorare fianco a fianco con Luca Ronconi, seguire, da un differente punto di vista il mio lavoro e per una seconda volta, è stata un'esperienza esemplare.
L'avventura è cominciata con le letture a tavolino, quando, cioè, il dramma viene sezionato e rimontato in una prospettiva magari tutto diversa da quella dell'autore, visto che la lettura a tavolino è la soglia oltre la quale c'è la rappresentazione, ed è lì che maturano le vere idee sull'opera, quelle che devono dare origine ad uno spettacolo.
Ho sempre pensato che in Ronconi ci fosse il drammaturgo insieme con il regista, un drammaturgo nel senso della conoscenza della parola sulla scena, della parola scritta per essere 'detta" - e nel caso specifico del lavoro fatto a tavolino sulla mia pièce ne ho avuto una fondamentale conferma.
E durante il lavoro a tavolino che ho potuto, per la prima volta - come autore - compiere un serio e approfondito lavoro su un testo mio accanto ad un grande regista, il quale ha costantemente dimostrato il più serio rispetto per le parole che avevo scritto ed ogni rara modifica richiesta avveniva nella collaborazione più totale, nel rispetto sia di quella che poteva essere la visione del regista sia di quanto era già stato scritto.
In tutta sincerità non ho mai avvertito in Ronconi un solo momento di diffidenza o di incertezza nei confronti del mio lavoro: e questo ha costituito per me la parte più costruttiva della mia esperienza con lui, considerando che ogni battuta, ogni parola e perfino le didascalie sono state sottoposte ad uno stesso lavoro di analisi e di esplorazione: cosa che credo più che rara quando si viene a contatto con un capitolo della giovane drammaturgia italiana.
Alle prove "in piedi" la stessa cura: sempre, dal parte del regista, l'eguale attenzione alle ragioni del dramma e, quando si rendeva necessaria una modifica (un testo, nel passare dalla scrittura all'esecuzione in scena, necessita sempre di modifiche) lo stesso spirito di collaborazione. (...)
Antonio Syxty
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