Asti, Teatro Alfieri
Brian Friel
Monica Capuani e Marta Gilmore
Andrea De Rosa
Umberto Orsini, Valentina Sperlì, Leonardo Capuano registrazione: voce del padre di Molly Andrea Renzi voce di Molly bambina Elena De Rosa Oft in the Stilly Night è cantata da Enza Di Blasio Halling dal Peer Gynt di Grieg e The lament for Limerick sono eseguite al violino da David Romano
Laura Benzi
Ursula Patzak
Pasquale Mari
Hubert Westkemper
Flaminia Caroli
Marco Olivieri
Giordano Baratta
Alberto Garziano
Tommaso Maltoni
Ninni Scafidi Fonti
Bepi Caroli
Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Stabile della Toscana
Il testo, ispirato a un fatto realmente accaduto e raccontato dal neurologo Oliver Sacks nel saggio Vedere e non vedere, apre uno squarcio profondo sui problemi etici e filosofici che la cura dei pazienti può avere sugli stessi. Brian Friel rielabora la vicenda di un singolare caso clinico mantenendo intatto il rigore scientifico e introducendo degli elementi che trasfigurano il caso. La folgorante e drammatica storia di Molly Sweeney tratteggiata con un’umanità senza diaframmi, mette a nudo la disarmata vulnerabilità di tutti i personaggi.
Molly è una donna di quarant’anni, cieca ma completamente autonoma, che lavora come fisioterapista in un centro benessere. Il tatto è la strada per entrare in contatto col mondo e per riconoscerlo, e supplisce perfettamente all’assenza della vista.
La donna, convinta a sottoporsi ad un’operazione chirurgica, riacquista in parte la vista, ma il tanto atteso esito positivo provoca invece in lei un grande un trauma. Molly si trova infatti a dover ri-conoscere il mondo, a doversi reinventare il suo orientamento, a re-imparare a vedere. Tutto ciò sfocierà in un tragico fallimento, probabilmente già intuito dalla paziente prima dell’intervento. Si riapre dunque l’antico interrogativo che William Molyneux sottopose all’amico John Locke: “ Immaginiamo un uomo nato cieco e ormai adulto, a cui sia stato insegnato a distinguere un cubo da una sfera mediante il tatto e al quale venga ora data la vista; sarebbe egli in grado, prima di toccarli di distinguerli e dire quale sia la sfera e quale il cubo, servendosi solo della vista?”. Un cast d’eccezione compone il trittico dei personaggi: Umberto Orsini e Valentina Sperlì nuovamente insieme dopo il recente Vecchi Tempi con la regia di Roberto Andò (2004) sono accompagnati da un inaspettato Leonardo Capuano, artista cocciutamente solitario che, a esclusione di qualche esperienza sotto la direzione di Alfonso Santagata e una recente incursione nella Compagnia Lombardi-Tiezzi per lo spettacolo Gli Uccelli, si è sempre ricavato uno spazio autonomo tracciando ostinatamente il suo personale itinerario dal linguaggio ruvidamente materico e dall’urgenza di mettersi in gioco.
Note di regia
Quando Umberto Orsini e la Emilia Romagna Teatro Fondazione mi proposero di curare la regia di Molly Sweeney – testo del drammaturgo irlandese Brian Friel, tratto da un caso - ; accettai subito la proposta perchè la storia di Molly Sweeney mi invitava a riflettere sulla mancanza della vista come un territorio di confine, sul limitare del quale noi ci troviamo nella condizione, dolorosa ma insieme privilegiata, di dover riconsiderare e mettere in discussione la natura stessa delle nostre percezioni. La domanda che mi sono posto è questa: cosa succede di una facoltà così importante, com’è la visione, quando viene a mancare lo strumento con cui noi la adoperiamo, gli occhi in questo caso. La risposta sembrerebbe piuttosto ovvia: non si vede più. In realtà non è così. La facoltà della visione - quindi di conoscenza della realtà attraverso le immagini - non viene azzerata dall’assenza dello strumento del vedere. Tutti i ciechi sostengono di avere delle immagini. Si potrebbe dire, senza sbagliare, che si può essere ciechi, ma e’ impossibile non vedere. Analogamente saremmo tentati di credere che, una volta operata, una volta riacquistata la funzionalità degli occhi dopo quaranta anni di cecità, Molly Sweeney ricominci a vedere, così, semplicemente. Ma purtroppo, come il testo ci racconta benissimo, le cose sono – drammaticamente - molto più complesse di quello che appaiono.
Di fronte a questi paradossi e contraddizioni, ero allora spinto, quasi fosse la prima volta a chiedermi: che cosa è il vedere? La stessa domanda che si pongono Frank e il dottor Rice, nello spettacolo rispettivamente il marito di Molly e l’oftalmologo che effettuerà l’operazione.
Il mondo che appare a Molly dopo l’intervento chirurgico, infatti, è un mondo che Frank e il Dr. Rice credevano di conoscere e che invece si rivela totalmente estraneo; ai loro, ma anche ai nostri occhi. Un mondo che, se solo per un attimo proviamo a guardare con gli occhi di Molly (con gli occhi di un cieco!) si rivela niente più che un misterioso e indecifrabile teatro di ombre.
La prima parte dello spettacolo si svolgerà completamente al buio. Ho provato a porre lo spettatore nella condizione della protagonista per creare i presupposti di una esperienza – non di immedesimazione (il buio non è mai ciò che vede un cieco) ma di sospensione, di quel fenomeno che è l’oggetto della nostra domanda.
Spero con questo di suscitare nello spettatore una sensazione di spaesamento che metta in discussione, per un attimo, la natura di “questo mondo che sempre vediamo”. Spero inoltre che il primo apparire della luce, nella seconda parte dello spettacolo, susciti la stessa emozione che investe, sconvolgendoli, non solo gli occhi, ma la vita di Molly Sweeney.
Andrea De Rosa
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